RUSH: 2112

In questa sezione recensiamo e discutiamo quelle che sono secondo voi divenute pietre miliari del Rock.

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Il mago di Floz
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RUSH: 2112

Messaggio da Il mago di Floz »

"Siete entrati nella zona d'ombra: al di là di questo mondo le cose strane sono conosciute.
Usate la chiave, sbloccate la porta. Scoprite ciò che il destino ha in serbo per voi."


Lee, Lifeson, Peart.
Tre brevi cognomi - una sequenza, immutata da quarant’anni, per entrare nella storia.

Nati a cavallo tra il 1968 e il 1969, i Rush assumono la loro pressoché immarcescibile conformazione nel 1974, a seguito dell’ultimo dei peraltro rari cambio d’organico. Proprio con l’arrivo del meraviglioso batterista - e paroliere - Neil Peart, il gruppo cambia marcia e intraprende la strada che, nel giro di qualche anno, lo avrebbe condotto dapprima a esplorare i territori più duri del progressive – tanto da essere considerato il padre del progressive metal – e, in seguito, quelli più sintetici del rock, senza mai perdere credibilità e cifra stilistica, al netto di qualche perdonabile - e inevitabile - scivolone.
Il seguente 1975 è un anno di transizione, nel quale i Rush pubblicano due album, il primo dei quali – Fly by night – è sostanzialmente un disco di canzoni hard rock (tra le quali spicca la title track), nel quale però sono già udibili i segni caratteristici che caratterizzeranno la produzione futura dei tre, a cominciare dalla voce aspra, altissima e sottile di Geddy Lee. Il secondo lavoro, Caress of steel, è viceversa un primo, timido tentativo di avvicinamento al progressive, con il consueto ritardo che ha caratterizzato il precario attecchimento del genere negli Stati Uniti (proprio del 1975 è del resto il capolavoro Pampered menial dei Pavlov’s dog); a fronte di piuttosto riusciti tentativi disomogenei di suite – The Fountain of Lamneth) –, tuttavia, il brano migliore è ancora una volta una cavalcata hard rock, la stupenda Bastille day. Caress of steel è tuttavia un lavoro che non lascerà un segno tangibile e sarà sostanzialmente ignorato perfino in decenni di notevole attività concertistica.

La svolta, quella vera, arriva nel millenovecentosettantasei.
I capolavori, probabilmente, arriveranno negli anni successivi (la potenza sonora dell'hard prog di A farewell to kings e di Hemispheres, lo splendore rock di Permanent waves e di Moving pictures, lavori già arricchiti dai sintetizzatori suonati dallo stesso Lee, i grandi brani dalle tinte elettriche degli anni ottanta (uno su tutti, la straordinaria The body electric del 1985); ma la pietra d’angolo è un album oscuro, potente, clamoroso. Duemilacentododici.

In 2112 tutto va a posto: il basso dello stesso Lee pulsa di vita propria, la chitarra del fondatore Alex Lifeson è lacerante, gli infiniti tamburi di Peart si arroventano di continuo.
Il cuore dell’album è la distopica suite che copre l’intero primo lato; ispirata da uno scritto di Ayn Rand, 2112 racconta la scoperta della musica da parte di un ragazzo che abita un mondo futuro – siamo, appunto, nel 2112 – soggetto a un totalitarismo di stampo novecentesco, il quale ha eliminato qualsiasi forma di cultura e di pensiero libero.
La suite, nella sua omogenea alternanza di furiose scorribande elettriche e di placide riflessioni acustiche, si articola in sette movimenti; l’Overture è un clamoroso mosaico strumentale, in cui i tre dimostrano, forse per la prima volta, le loro enormi capacità. Un solo verso cantato (“I miti erediteranno la Terra”) e poi è già apoteosi: The temples of Syrinx è uno straordinario momento di hard rock, con un cantato furioso, arrabbiato, stridulo, micidiale; se fosse una canzone in forma canonica, si tratterebbe senza dubbio di uno dei vertici del genere. Nella suite, questo movimento rappresenta evidentemente il potere totalitario della società distopica, rappresentato dai sacerdoti dei templi di Syrinx.
Nella terza sezione, Discovery, si narra di come, presso un corso d’acqua (al minuto 6:45), un ragazzo trovi una chitarra e, con essa, scopra la musica. Lifeson è bravissimo a rendere in musica l’approccio allo strumento del giovane e la sua progressiva presa di fiducia con tocchi sapientemente incerti del suo strumento: una scena tutt'altro che facile da rappresentare. La voce di Lee sottolinea il miglioramento del ragazzo con un cantato sempre più espressivo, mentre il brano sfocia in un breve e intenso pieno strumentale che introduce la sezione seguente.
Presentation è emblematica dell’alternanza stilistica della suite: alle delicate e melodiche preghiere del giovane - a 10:52 egli implora i sacerdoti: “Ascoltate la mia musica, capite cosa sono in grado di fare: c’è qualcosa forte come la vita, so che vi raggiungerà” -, si contrappone il secco, acido rifiuto dei sacerdoti (“Sappiamo che non è niente di nuovo, solo una perdita di tempo. Non abbiamo bisogno di metodi antichi: il mondo sta andando bene.”) Il frammento termina con un pazzesco assolo di Lifeson a 13:00.
In Oracle: the dream, il ragazzo vaga in un’atmosfera onirica fino a cadere addormentato e vede un oracolo – il ritmo cambia improvvisamente: ora è frenetico – in grado di mostrarli un mondo distante anni luce e retto da uomini ricchi di saggezza e talento; uomini che hanno abbandonato la Terra secoli prima ma che ancora coltivano il loro potere nella speranza di aver l'occasione di riprendere il controllo della casa cui appartengono - la Terra. Le riflessioni disperate del giovane, vittima di atroci delusioni e di rammarico per ciò che il suo mondo non può più essere, sono alla base di Soliloquy, lancinante grido per voce e chitarra (“I miei spiriti sono nelle viscere della disperazione, la mia linfa vitale sprizza via.”). Tuttavia non è più tempo per le speranze: l’ombra cupa del controllo totale cade sulla Terra nel maestoso Grand finale.
“Attenzione, pianeti della Federazione solare: abbiamo assunto il controllo!”, ripete tre volte una voce oscura cupa, la voce del terrore. O forse è la voce speranzosa dell’umanità sopravvissuta alla guerra ideologica e alla dittatura, finalmente soverchiata? Un interrogativo, un contrasto che chiude in maniera emblematica un lavoro straordinario.

I cinque brani che costituiscono il secondo lato sono altrettanti, piccoli gioielli.
A passage to Bangkok è un tirato hard rock che sfoggia un brevissimo riff dal taglio asiatico e una potente parte cantata, nel quale sono riconoscibilissimi i tremolii sulle vocali lunghe tipici di Geddy Lee; molto incisivo l’assolo di Lifeson.
Più sofferta The twilight zone, impreziosita da un bellissimo arpeggio che apre un ritornello etereo e melodico.
Introdotta da un vivace crescendo di chitarra, Lessons è invede un frizzante brano dalle improvvise tinte hard; in grande evidenza il basso di Lee. Probabilmente è il brano meno significativo dell’album, ma sarebbe un sacrilegio considerarla un riempitivo.
Il vertice emotivo della seconda facciata è probabilmente la seguente, lancinante Tears: assecondato da una chitarra liquida, il lancinante canto di Lee guida questa ballata in un vortice oscuro suggellato dall’inquietante mellotron, suonato per l’occasione da Hugh Syme.
In chiusura dell’album uno dei grandi classici dei Rush, Something for nothing: bellissimo il dialogo inziale tra chitarra e basso, implacabile come sempre la batteria di Neil Peart nei suoi rabbiosi doppiaggi della chitarra, nervoso e lacerante Geddy Lee; brano molto coinvolgente.

“Non si ottiene alcunché non dando nulla, non puoi avere la libertà gratis; non diventerai saggio finché i tuoi occhi saranno segnati dal sonno – non importa quali siano i tuoi sogni.”

2112, in definitiva, è un album strepitoso, che vive della luce folgorante della suite omonima e non presenta alcun cedimento significativo nella seconda facciata. L’album, pubblicato dalla Mercury, fu importante anche per motivi iconografici: il pentacolo della copertina e l’uomo nudo del retro che su di esso si staglia saranno tra gli emblemi di una carriera intera.

Strano destino, quello dei Rush. Nella storia della musica, pochi gruppi possono vantare la carriera, la vastissima produzione e le forti influenze del gruppo canadese; eppure, quantomeno in Italia, troppo spesso non vengono ricordati e raramente ne sono celebrati i meriti.
Come detto, molti lavori, alcuni forse ancora migliori, verranno dopo 2112, in una lunghissima storia che continua ancora oggi. Ma è stato proprio quest’album a gridare al mondo quello che i tre canadesi sarebbero stati in grado di creare in seguito; e lo fece in maniera clamorosa.

“Tu hai pianto per me: lo posso vedere. Cosa potrebbe toccarmi più nel profondo delle lacrime che cadono da occhi che non fanno che piangere?”
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reallytongues
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Re: RUSH: 2112

Messaggio da reallytongues »

in merito alle top 5 recenti:
i Rush sono il gruppo preferito del bassista dei Primus Les Claypool (quasi all' unanimità considerato il miglior bassista della storia del rock)!
In effetti sono una band importante perchè hanno inaugurato un prog più dinamico, duro e heavy, al passo coi tempi e che poteva far breccia non solo ai soliti "inguaribili romantici", ma pure ai giovani a caccia di emozioni forti.
in America del Nord sono un'istituzione
conosco a qualcosa, ma non ho loro album
adesso melo riascolto sul web
bella pietra complimenti
nel continente nero paraponzi ponzi bo
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Re: RUSH: 2112

Messaggio da mimmo il meccanico »

Gran bella recensione, soprattutto per aver parlato anche di testi e tematiche del disco, complimenti mago.
L'album è il mio preferito dei Rush, oltre ad essere uno dei miei dischi preferiti in assoluto; la title track è pazzesca, ma anche il lato b ha i suoi momenti.
Diciamo che è un album col quale hanno dimostrato di fare entrambe le cose: sia la suite lunga e composita, che pezzi più "ordinari", mantenendo però sempre il livello alto.
ok e adesso?
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Il mago di Floz
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Re: RUSH: 2112

Messaggio da Il mago di Floz »

Grazie. [hearts]

Really, io ti suggerisco, oltre a questo, i quattro che ho citato: A farewell to kings, Hemispheres, Permanent waves, Moving pictures - i primi due gioielli hard prog (soprattutto nella suite in due parti Cygnus X-1).
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Re: RUSH: 2112

Messaggio da 2Old2Rock2Young2Die »

Ottima recensione per un buon album ma, secondo me, ancora un pò acerbo per metterlo fra i migliori dei Rush. Certamente con questo, ma sopratutto col successivo A Farewell to kings (e la suite space-rock Cygnus X-1 con quel potente riff in 4/4 che dal vuoto interplanetario si immerge nel vortice atonale del black hole), si compie la trasformazione del gruppo da power trio Hard Rock a Power trio Hard Prog, grazie sopratutto all'influenza decisiva di Neil Peart.
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Re: RUSH: 2112

Messaggio da Il mago di Floz »

Concordo relativamente sull'acerbo - del resto per pietra miliare, come ho detto, io non intendo un capolavoro, ma un punto di svolta, a qualsiasi scala. Ciò non toglie che, seppure imperfetto, rimanga il loro lavoro che preferisco. Grazie per i complimenti. :)
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Re: RUSH: 2112

Messaggio da 2Old2Rock2Young2Die »

Il fatto è che per me i pezzi del lato B non reggono il confronto con la suite del lato A (un pò come per Tarkus degli Elp, con tutte le dovute proporzioni), mentre già il successivo ha sia una magnifica suite che grandi brani brevi (come la title track). Come punto di svolta ci sta, ma ricordando, come giustamente hai fatto, che l'evoluzione (seppur timida) era già iniziata con FLY BY NIGHT e proseguita con CARESS OF STEEL
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Re: RUSH: 2112

Messaggio da Il mago di Floz »

Sono d'accordo (Tears a parte); probabilmente il loro capolavoro è proprio A farewell to kings (la prima parte di Cygnus X-1 è qualcosa di inspiegabile).
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