1990 - Intervista a Ritchie Blackmore
Inviato: 02/04/2015, 20:33
Il generale Stratocaster
di Harold Steinblatt
E’ una giornata fredda e piovosa nel Connecticut. Io e l’executive editor Brad Tolinski ci troviamo nella hall di un bell’albergo, in attesa di incontrare Ritchie Blackmore. Il glorioso chitarrista, nella sua infinita clemenza, ci ha garantito una rara intervista (forse l’imminente uscita del nuovo disco dei Deep Purple, Slaves And Masters, con la partecipazione del neo entrato Joe Lynn Turner, c’entra qualcosa).
Al momento Blackmore sta cenando con alcuni amici e ci raggiungerà alla fine della cena. Io e Tolinski siamo un po’ in apprensione, L’irascibilità di Blackmore e leggendaria quasi quanto la sua antipatia nei confronti della stampa.
Mi sento come se dovessi incontrare Darth Fener, il cattivo di Guerre stellari. Mentre controllo il mio registratore, per verificare che sia tutto in ordine (sono sempre preoccupato che si rompa) uno scenario sinistro si agita ripetutamente nella mia mente. Immagino che l’intervista sia cominciata con questa prima domanda: “In che cosa differisce l’attuale formazione dei Deep Purple rispetto a quelle passate?”
Blackmore mi guarda fisso diventando nero dalla rabbia: “Come osi chiedermi una cosa del genere?”, urla. “Prendi questo!” Mi spacca una strato bianca sulla testa che cade in mille pezzi tutt’intorno a me. Quindi, si alza e se ne va.
Fine dell’intervista.
Ritorno all'ansiosa realtà, tranquillizzandomi al pensiero che il mio eroe non può essere un tale orco. Poi mi ricordo che da giovane Blackmore aveva una certa inclinazione per il gettare uova, pomodori e buste di farina da quattro pounds da veicoli in movimento ai passanti (presumibilmente con una particolare preferenza per le donne anziane su sedia a rotelle).
Alla fine, un tizio dell’entourage di Blackmore si avvicina per dirci che il grande è pronto. Entriamo nella sala della cena soffusamente illuminata, accompagnati dal suono vellutato di un pianoforte, chiacchiere da dopocena e rumore di piatti. Di lì a poco incontriamo R.B.
E' in ottima forma. Una cera migliore di quella che aveva dieci anni fa, che è molto di più di quanto si possa dire per la maggior parte dei vecchi rockers. Al solito veste in nero, tranne che per una camicia bianca ornata di pieghe che lo fa assomigliare a un nobile francese. Stringe le nostre mani tese (buon segno, penso) e ci presentiamo. Blackmore si siede e ordina una birra.
“Sei pronto?”, chiedo e lui annuisce. Ma prima che io possa fare la prima domanda, indica il mio registratore e dice: “A proposito, quello non è acceso, vero?”. “Oh no”, penso “Il nastro è rotto”.
Le mie peggiori paure cominciavano ad avverarsi. Tolinski mi fissa, lo spavento si imprime sui suoi lineamenti. Controllo il dispositivo ma sembra correre morbidamente. Mi giro verso Blackmore, un tantino confuso e insisto: “Si sta muovendo, è acceso”. “Volevo solo accertarmene”, dice furbescamente. In pochi sconvolgenti istanti dimostra che, a dispetto della sua reputazione, è un diavolo di bravo ragazzo, divertente, il tipo ideale con cui passare il tempo.
Si esibisce persino in un trucco di prestidigitazione trasformando un nichelino in un quarto di dollaro proprio davanti ai nostri occhi meravigliati.
Due ore dopo il proprietario del ristorante si avvicina annunciando: “Stiamo chiudendo!” Io ringrazio infinitamente Ritchie per essere stato cosi disponibile. “Grazie a voi per essere stati cosi attenti”, dice questo amabile flagello dei giornalisti rock.
- In che cosa differiscono, rispetto alle formazioni del passato, questi nuovi Deep Purple?
- Dal punto di vista musicale, direi che il cantante non beve cosi tanto (ride), ma seriamente più divento vecchio e più ho voglia di sentire della melodia. Abbiamo lavorato veramente duro per cercare di dar vita a belle canzoni, che si potessero ricordare, ed a progressioni armoniche piacevoli. E’ questo che mi interessa al momento. Ci ha anche aiutato il fatto che il nuovo cantante, Joe Lynn Turner, scriva e canti delle grandi melodie. Con Joe non abbiamo dovuto affidarci troppo a riff pesanti. Quando avevo vent’anni non mi interessavo affatto della costruzione delle canzoni, volevo soltanto fare più casino e suonare il più forte ed il più velocemente possibile.
- Come chitarrista, che cosa hai cercato di fare di diverso su questo nuovo disco? Ad esempio, l’assolo di “King Of Dreams” ha un tocco esotico che non appare in nessuno dei tuoi dischi precedenti.
- Desideravo che quel suono evocasse un certo mood. Non voleva essere un esercizio di velocità senza senso ecco perché ci sono molte pause. Stavo cercando di fare in modo che diventasse un’estensione della melodia della voce e che esprimesse qualcosa di collegato a quella dannata canzone. Non volevo solo far vedere alcuni trucchetti che avevo imparato al negozio di strumenti musicali il sabato mattina.
- Quando scrivi o quando sei occupato alla pre-produzione di un album cerchi di lavorare prima agli assoli?
- Non lavoro mai sui miei soli. Ogni cosa che faccio, di solito, viene spontaneamente. Se qualcuno dice: “Quello andava bene, risuonalo!”, non sono in grado di farlo. L’unico assolo che ho imparato a memoria è “Highway Star” (dall’album Machine Head), mi piaceva suonare quella fuga di semitoni nella parte centrale.
- ll tastierista Jon Lord suona più tessiture armoniche, piuttosto che vere e proprie frasi su questo nuovo disco.
- A Jon piace capire cosa sto per fare, e lui lo esalta. Non è un leader, a lui piace seguire.
- E questa la ragione per la quale la vostra collaborazione è durata così a lungo?
- Sì, perché non ci pestiamo i piedi a vicenda.
- Torniamo agli inizi dei Deep Purple: come vi siete incontrati tu e Jon?
- L’ho incontrato in un bar di travestiti ad Amburgo, in Germania, nel 1968 (ride). Alla fine degli anni sessanta c’erano pochi organisti in grado di suonare come Jon. Avevamo gli stessi gusti musicali, ci piacevano i Vanilla Fudge, erano loro i nostri eroi. Di solito suonavano allo Speakeasy di Londra e tutti gli hippies andavano là per passare il tempo - Clapton, i Beatles, tutti andavano là per farsi vedere. Secondo la leggenda in quegli anni a Londra il fenomeno era Hendrix, ma questo non è vero: erano i Vanilla Fudge! Suonavano brani di otto minuti con una dinamica incredibile, la gente si chiedeva: “Che sta succedendo? Come mai non sono tre minuti?” Timmy Bogert, il loro bassista, era fantastico tutto il gruppo era molto più avanti del suo tempo. Cosi, all’inizio, volevamo essere una copia dei Vanilla Fudge, ma il nostro cantante, Ian, voleva essere Edgar Winter, diceva: “Voglio urlare come lui, come Edgar Winter!”. Ed ecco quello che eravamo: i Vanilla Fudge con Edgar Winter!
Dopo il vostro disco d'esordio Concerto For Group And Orchestra (1970) con la Royal Philarmonic Orchestra, il vostro stile esecutivo divenne un tantino più aggressivo. L’album In Rock rimase un punto di riferimento per tutti i dischi successivi dei Purple.
- Mi ero stancato di suonare con le orchestre, l’album In Rock esprimeva il mio desiderio di uscire da un certo andazzo. Ian Gillan, Roger Glover ed io volevamo essere un gruppo di hard rock e volevamo suonare solo rock and roll e cosi proseguimmo in quella direzione. Sentivo che tutta la cosa con l’orchestra era un po’ monotona. Voglio dire, tu stai suonando nella Royal Albert Hall, la gente è seduta con le braccia conserte e tu sei lì in piedi, vicino ad un violinista che, ogni volta che fai un solo, si tappa le orecchie: non ti fa sentire granché ispirato!
- Sempre nell’album In Rock, hai cominciato a fare un gran uso della leva del vibrato.
- Sì, è cosi. Avevo visto la James Cotton Blues Band al Fillmore East, ed il chitarrista del gruppo suonava con la leva del vibrato e produceva dei suoni veramente affascinanti. Dopo aver visto lui cominciai ad usarla anch’io, ma anche Hendrix mi aveva ispirato.
- Di solito facevi fare alla leva un grande lavoro.
- Impazzivo. Usavo delle leve fatte apposta, un quarto di pollice di spessore, perché continuavo a rompere quelle normali. Il mio liutaio mi guardava in modo strano e mi diceva “Che diavolo gli fai a queste leve?”
Alla fine mi diede una gigantesca leva da mezzo pollice di solido acciaio e disse “Se rompi anche questa, non ne voglio più sapere!”. Circa tre settimane dopo tornai al negozio, mi guardo e disse: “Non l’avrai fatto, vero?”. “L’ho fatto!” dissi. Gli spiegai dettagliatamente di come avessi roteato la chitarra tenendola per la leva, l’avessi scaraventata sul palco, ci fossi salito sopra e avessi strappato la leva con entrambe le mani. Era una specie di purista e non ne fu granché affascinato.
- Ci sono un sacco di rumori strani in un brano dell’album In Rock, sei tu che scaraventi la tua chitarra in giro per lo studio?
- Se ricordo bene, stavo sbattendo la chitarra sulla porta della regia. Il tecnico del suono mi guardava in modo strano. Era il tipico esponente della vecchia scuola, come il mio liutaio: non era affatto affascinato.
- Hai mai provato un sistema di tremolo con il blocca corde?
- No, non uso più la leva, è diventata troppo popolare.
- Tra l’album In Rock e Fireball sei passato dalle Gibson alle Fender Stratocaster: come ha influito questo passaggio sul tuo modo di suonare?
- E’ stato difficile perché é molto più facile muoversi tra le corde su una Gibson, le Fender hanno una tensione maggiore e cosi devi combatterci un po’ di più. Mi sono fissato con le Fender perché mi piaceva
talmente il loro suono, specialmente quando accoppiate ad un wah-wah.
(continua)
di Harold Steinblatt
E’ una giornata fredda e piovosa nel Connecticut. Io e l’executive editor Brad Tolinski ci troviamo nella hall di un bell’albergo, in attesa di incontrare Ritchie Blackmore. Il glorioso chitarrista, nella sua infinita clemenza, ci ha garantito una rara intervista (forse l’imminente uscita del nuovo disco dei Deep Purple, Slaves And Masters, con la partecipazione del neo entrato Joe Lynn Turner, c’entra qualcosa).
Al momento Blackmore sta cenando con alcuni amici e ci raggiungerà alla fine della cena. Io e Tolinski siamo un po’ in apprensione, L’irascibilità di Blackmore e leggendaria quasi quanto la sua antipatia nei confronti della stampa.
Mi sento come se dovessi incontrare Darth Fener, il cattivo di Guerre stellari. Mentre controllo il mio registratore, per verificare che sia tutto in ordine (sono sempre preoccupato che si rompa) uno scenario sinistro si agita ripetutamente nella mia mente. Immagino che l’intervista sia cominciata con questa prima domanda: “In che cosa differisce l’attuale formazione dei Deep Purple rispetto a quelle passate?”
Blackmore mi guarda fisso diventando nero dalla rabbia: “Come osi chiedermi una cosa del genere?”, urla. “Prendi questo!” Mi spacca una strato bianca sulla testa che cade in mille pezzi tutt’intorno a me. Quindi, si alza e se ne va.
Fine dell’intervista.
Ritorno all'ansiosa realtà, tranquillizzandomi al pensiero che il mio eroe non può essere un tale orco. Poi mi ricordo che da giovane Blackmore aveva una certa inclinazione per il gettare uova, pomodori e buste di farina da quattro pounds da veicoli in movimento ai passanti (presumibilmente con una particolare preferenza per le donne anziane su sedia a rotelle).
Alla fine, un tizio dell’entourage di Blackmore si avvicina per dirci che il grande è pronto. Entriamo nella sala della cena soffusamente illuminata, accompagnati dal suono vellutato di un pianoforte, chiacchiere da dopocena e rumore di piatti. Di lì a poco incontriamo R.B.
E' in ottima forma. Una cera migliore di quella che aveva dieci anni fa, che è molto di più di quanto si possa dire per la maggior parte dei vecchi rockers. Al solito veste in nero, tranne che per una camicia bianca ornata di pieghe che lo fa assomigliare a un nobile francese. Stringe le nostre mani tese (buon segno, penso) e ci presentiamo. Blackmore si siede e ordina una birra.
“Sei pronto?”, chiedo e lui annuisce. Ma prima che io possa fare la prima domanda, indica il mio registratore e dice: “A proposito, quello non è acceso, vero?”. “Oh no”, penso “Il nastro è rotto”.
Le mie peggiori paure cominciavano ad avverarsi. Tolinski mi fissa, lo spavento si imprime sui suoi lineamenti. Controllo il dispositivo ma sembra correre morbidamente. Mi giro verso Blackmore, un tantino confuso e insisto: “Si sta muovendo, è acceso”. “Volevo solo accertarmene”, dice furbescamente. In pochi sconvolgenti istanti dimostra che, a dispetto della sua reputazione, è un diavolo di bravo ragazzo, divertente, il tipo ideale con cui passare il tempo.
Si esibisce persino in un trucco di prestidigitazione trasformando un nichelino in un quarto di dollaro proprio davanti ai nostri occhi meravigliati.
Due ore dopo il proprietario del ristorante si avvicina annunciando: “Stiamo chiudendo!” Io ringrazio infinitamente Ritchie per essere stato cosi disponibile. “Grazie a voi per essere stati cosi attenti”, dice questo amabile flagello dei giornalisti rock.
- In che cosa differiscono, rispetto alle formazioni del passato, questi nuovi Deep Purple?
- Dal punto di vista musicale, direi che il cantante non beve cosi tanto (ride), ma seriamente più divento vecchio e più ho voglia di sentire della melodia. Abbiamo lavorato veramente duro per cercare di dar vita a belle canzoni, che si potessero ricordare, ed a progressioni armoniche piacevoli. E’ questo che mi interessa al momento. Ci ha anche aiutato il fatto che il nuovo cantante, Joe Lynn Turner, scriva e canti delle grandi melodie. Con Joe non abbiamo dovuto affidarci troppo a riff pesanti. Quando avevo vent’anni non mi interessavo affatto della costruzione delle canzoni, volevo soltanto fare più casino e suonare il più forte ed il più velocemente possibile.
- Come chitarrista, che cosa hai cercato di fare di diverso su questo nuovo disco? Ad esempio, l’assolo di “King Of Dreams” ha un tocco esotico che non appare in nessuno dei tuoi dischi precedenti.
- Desideravo che quel suono evocasse un certo mood. Non voleva essere un esercizio di velocità senza senso ecco perché ci sono molte pause. Stavo cercando di fare in modo che diventasse un’estensione della melodia della voce e che esprimesse qualcosa di collegato a quella dannata canzone. Non volevo solo far vedere alcuni trucchetti che avevo imparato al negozio di strumenti musicali il sabato mattina.
- Quando scrivi o quando sei occupato alla pre-produzione di un album cerchi di lavorare prima agli assoli?
- Non lavoro mai sui miei soli. Ogni cosa che faccio, di solito, viene spontaneamente. Se qualcuno dice: “Quello andava bene, risuonalo!”, non sono in grado di farlo. L’unico assolo che ho imparato a memoria è “Highway Star” (dall’album Machine Head), mi piaceva suonare quella fuga di semitoni nella parte centrale.
- ll tastierista Jon Lord suona più tessiture armoniche, piuttosto che vere e proprie frasi su questo nuovo disco.
- A Jon piace capire cosa sto per fare, e lui lo esalta. Non è un leader, a lui piace seguire.
- E questa la ragione per la quale la vostra collaborazione è durata così a lungo?
- Sì, perché non ci pestiamo i piedi a vicenda.
- Torniamo agli inizi dei Deep Purple: come vi siete incontrati tu e Jon?
- L’ho incontrato in un bar di travestiti ad Amburgo, in Germania, nel 1968 (ride). Alla fine degli anni sessanta c’erano pochi organisti in grado di suonare come Jon. Avevamo gli stessi gusti musicali, ci piacevano i Vanilla Fudge, erano loro i nostri eroi. Di solito suonavano allo Speakeasy di Londra e tutti gli hippies andavano là per passare il tempo - Clapton, i Beatles, tutti andavano là per farsi vedere. Secondo la leggenda in quegli anni a Londra il fenomeno era Hendrix, ma questo non è vero: erano i Vanilla Fudge! Suonavano brani di otto minuti con una dinamica incredibile, la gente si chiedeva: “Che sta succedendo? Come mai non sono tre minuti?” Timmy Bogert, il loro bassista, era fantastico tutto il gruppo era molto più avanti del suo tempo. Cosi, all’inizio, volevamo essere una copia dei Vanilla Fudge, ma il nostro cantante, Ian, voleva essere Edgar Winter, diceva: “Voglio urlare come lui, come Edgar Winter!”. Ed ecco quello che eravamo: i Vanilla Fudge con Edgar Winter!
Dopo il vostro disco d'esordio Concerto For Group And Orchestra (1970) con la Royal Philarmonic Orchestra, il vostro stile esecutivo divenne un tantino più aggressivo. L’album In Rock rimase un punto di riferimento per tutti i dischi successivi dei Purple.
- Mi ero stancato di suonare con le orchestre, l’album In Rock esprimeva il mio desiderio di uscire da un certo andazzo. Ian Gillan, Roger Glover ed io volevamo essere un gruppo di hard rock e volevamo suonare solo rock and roll e cosi proseguimmo in quella direzione. Sentivo che tutta la cosa con l’orchestra era un po’ monotona. Voglio dire, tu stai suonando nella Royal Albert Hall, la gente è seduta con le braccia conserte e tu sei lì in piedi, vicino ad un violinista che, ogni volta che fai un solo, si tappa le orecchie: non ti fa sentire granché ispirato!
- Sempre nell’album In Rock, hai cominciato a fare un gran uso della leva del vibrato.
- Sì, è cosi. Avevo visto la James Cotton Blues Band al Fillmore East, ed il chitarrista del gruppo suonava con la leva del vibrato e produceva dei suoni veramente affascinanti. Dopo aver visto lui cominciai ad usarla anch’io, ma anche Hendrix mi aveva ispirato.
- Di solito facevi fare alla leva un grande lavoro.
- Impazzivo. Usavo delle leve fatte apposta, un quarto di pollice di spessore, perché continuavo a rompere quelle normali. Il mio liutaio mi guardava in modo strano e mi diceva “Che diavolo gli fai a queste leve?”
Alla fine mi diede una gigantesca leva da mezzo pollice di solido acciaio e disse “Se rompi anche questa, non ne voglio più sapere!”. Circa tre settimane dopo tornai al negozio, mi guardo e disse: “Non l’avrai fatto, vero?”. “L’ho fatto!” dissi. Gli spiegai dettagliatamente di come avessi roteato la chitarra tenendola per la leva, l’avessi scaraventata sul palco, ci fossi salito sopra e avessi strappato la leva con entrambe le mani. Era una specie di purista e non ne fu granché affascinato.
- Ci sono un sacco di rumori strani in un brano dell’album In Rock, sei tu che scaraventi la tua chitarra in giro per lo studio?
- Se ricordo bene, stavo sbattendo la chitarra sulla porta della regia. Il tecnico del suono mi guardava in modo strano. Era il tipico esponente della vecchia scuola, come il mio liutaio: non era affatto affascinato.
- Hai mai provato un sistema di tremolo con il blocca corde?
- No, non uso più la leva, è diventata troppo popolare.
- Tra l’album In Rock e Fireball sei passato dalle Gibson alle Fender Stratocaster: come ha influito questo passaggio sul tuo modo di suonare?
- E’ stato difficile perché é molto più facile muoversi tra le corde su una Gibson, le Fender hanno una tensione maggiore e cosi devi combatterci un po’ di più. Mi sono fissato con le Fender perché mi piaceva
talmente il loro suono, specialmente quando accoppiate ad un wah-wah.
(continua)